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Alessandrina Ravizza (1846-1915)

 

di Emma Scaramuzza tratto da Presidenza del Consiglio dei Ministri. Dipartimento per  le Pari Opportunità,  Italiane a cura di Eugenia Roccella e Lucetta Scaraffia, 1° volume Dall’unità d’Italia alla 1a guerra mondiale, Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria, Roma, 2003

(per gentile concessione dell’autrice)

Nelle immagini di “Santa laica”, “Madonna dei poveri” e “Grande consolatrice”, con le quali alcuni contemporanei l’avevano ricordata, all’indomani della morte, il 15 gennaio 1915, Alessandrina Ravizza non si sarebbe affatto riconosciuta: per tutta la vita aveva combattuto la retorica, la “filantropia dell’elemosina”, ed il culto della propria eccezionalità.

Nata in Russia nel 1846 da padre oriundo italiano e da madre tedesca, a diciassette anni si trasferì a Milano, dove sposò un ingegnere milanese dal quale non ebbe figli. Sua maestra di vita fu Laura Solera Mantegazza, patriota e filantropa emancipazionista, dalla quale ereditò visione politica e metodi di lavoro. Come lei fu un’intraprendente realizzatrice di opere assistenziali che avevano il fine di trasformare le coscienze per “rigenerare” la società intera, su basi di giustizia ed uguaglianza sociale. Colta, generosa e comunicativa, seppe coinvolgere nelle sue imprese persone di ogni ambiente e classe sociale, soprattutto le amiche, che ebbe numerose e vicine, da Giacinta Pezzana ad Anna Kuliscioff, da Ada Negri a Sibilla Aleramo.

Attivando la partecipazione dei suoi assistiti, riuscì a trasformare iniziative nate con fondi irrisori in imprese modello e spesso prospere. Dopo avere consolidato la Scuola professionale femminile, che consentì a molte giovani della piccola borghesia l’accesso a lavori qualificati, aprì nel 1879, in uno squallido stanzone di via Anfiteatro, la Cucina per ammalati poveri (a cui venne annesso nel 1888 un Ambulatorio medico) che divenne il punto di riferimento dei poveri e degli emarginati del quartiere e soprattutto di adolescenti sbandati e delinquenti, che trovarono nella Ravizza una confidente e una protettrice.

L’impegno nella riforma dell’assistenza fu molto coinvolgente per la Ravizza, tuttavia non le impedì di di dedicarsi alla scrittura, la sua passione segreta, nè di sostenere le battaglie emancipazioniste e quelle in difesa dei lavoratori con una libertà che alcuni definirono anarchica e che era semplicemente l’espressione di un pensiero scevro da ideologie e di una grande umanità.

Nei primi anni del Novecento la Ravizza, che aveva superato i cinquantanni, era al culmine della sua popolarità. Nel 1901 fu tra le fondatrici dell’Università popolare, sorta per diffondere la cultura tra le classi popolari e al contempo  collaborò con il Comitato contro la tratta delle bianche, che si proponeva di contrastare lo sfruttamento della prostituzione. Insieme a Bambina Venegoni, una dirigente dell’Unione femminile con la quale era stata «visitatrice» presso l’Ospedale sifilitico dove erano ricoverate molte prostitute, ebbe l’idea di fondare la Scuola-laboratorio per donne e bambini luetici (che aprì i battenti nel 1904), dove le «perdute» potessero studiare, apprendere un lavoro e incontrare donne disposte ad aiutarle. I bambini malati invece, avrebbero potuto ricevere le cure di maestri sensibili, in un clima affettuoso e rilassato.

Il 1906 rappresentò una svolta nella vita della Ravizza: divenne una filantropa di professione. Fu infatti assunta dalla Società Umanitaria con l’incarico di direttrice della Casa di lavoro, un istituto progettato da tempo che aveva il compito di offrire a bisognosi e disoccupati di entrambi i sessi la possibilità di “rielevarsi da sè medesimi” attraverso l’istruzione e il lavoro. Fu l’opera che la Ravizza ebbe maggiormente a cuore: toccò a lei organizzare le attività dei vari laboratori, selezionare il personale, procurare i finanziamenti, dirimere le liti interne, e soprattutto difendere l’istituto dagli attacchi di coloro che avrebbero voluto chiuderlo, alcuni perché improduttivo, altri perché concorrenziale nei confronti dei lavoratori occupati. A conti fatti, come la Ravizza si incaricò di dimostrare nel suo libro Sette anni di vita nella casa di lavoro (Milano 1915), «quel porto per i viandanti della disperazione», era stato un investimento in attivo, valutando l’utilità sociale e non soltanto il profitto immediato.

I dirigenti dell’Umanitaria e quelli della Camera del lavoro però seguivano una logica differente e nel 1913 la Casa di lavoro dovette chiudere i battenti. Fu un trauma per la Ravizza già malata da tempo. Secondo chi le fu vicino l’orrore della guerra sopraggiunta di lì a poco, e il senso di impotenza che l’invasero le diedero il colpo di grazia. Accadde il 15 gennaio 1915, a Milano.

Vai a Violazione di domicilio (21′,39”) adattamento teatrale per solo audio di Ombretta De Biase 12-2011

vai al testo originale Violazione di domicilio sta in I miei ladruncoli. Racconti dai bassifondi milanesi, Nuova Antologia, Milano, 1906

 vedi anche Alessandrina Ravizza e la battaglia femminista al divieto per l’accertamento di paternità della prole nata fuori dal matrimonio