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Alessandrina Ravizza, Violazione di domicilio – testo originale

Alessandrina Ravizza, Violazione di domicilio sta in I miei ladruncoli. Racconti dei bassifondi milanesi, Nuova Antologia, Milano, 1906 

vai alla lettura on line: Violazione di domicilio adattamento teatrale per solo audio di Ombretta De Biase 12-2011

vai alla biografia Alessandra Ravizza di EMMA SCARAMUZZA

Certamente vi sono delle persone a cui questo racconto parrà inverosimile. Sono quelle per cui la vita trascorre semplice e piana, senza scosse, senza avvenimenti straordinari. Alcuni poi, che non escono mai dal cammino della normalità e del senso comune, che si riposano nella sonnifera sicurezza della rendita da riscuotere, mi accuseranno anche di immoralità. Ma il fatto è un fatto ed io ve lo racconto.

Era sul finire di settembre nell’aria passavano freschi soffi annuncianti l’approssimarsi della stagione fredda; io stavo una sera nel mio salotto le cui finestre erano aperte e chiacchieravo con alcuni parenti ed ospiti giunti da pochi giorni. Improvvisamente fui chiamata nell’anticamera dove mi aspettava una donna che aveva urgente bisogno di parlarmi. Appena mi vide questa cominciò con voce sommessa e concitata:

Signora, sono la portinaia del n. 14 della casa accanto –

Sì lo so, ebbene ? –

Ieri … ho avuto la debolezza di alloggiare in un abbaino una ragazza che mi si presentò con un grosso fagotto e con un aspetto stanco ed abbattuto. Dev’essere di campagna. Mi pregava  con tanta gentilezza che combinammo subito e non mi curai di avvertire mio marito.  Che cosa ho mai fatti !  Lui non vuol ascoltare ragioni. La forestiere è incinta, e il padrone non vuol bambini in casa …

Ma voi non ve ne siete accorta? –

Mio Dio sì. Anzi! Credo che non ha tempo da perdere. E siccome non ha un soldo e dovrò mandarla via, almeno che avesse deposto la creatura ! Mio marito è andato lassù e le ha intimato di sfrattare con male parole. Ora è qui sulla scala.

 

Il marito, guardia municipale, era il custode dell’ordine e della morale non solo per le vie della città, ma anche negli abbaini del suo padrone.

Portiamola alla Maternità – riflettei.

No signora ! Dice che resta piuttosto sul lastrico, perchè la direzione della Maternità lo fa sapere al suo paese. Sa che cosa sono i paesi. Tutti si conoscono, fin dentro la camicia …

 

Un’idea mi era balenata in capo mentre la portinaia continuava a chiacchierare. Le dissi di farla entrare. Era una giovane gracile, pallida, dalle fattezze fini,  sebbene vestita da contadina e colle mani piccole ma guaste.  Poteva avere da venticinque a trentanni. E immaginai una di quelle cadute tardive, il precipizio di una virtù sempre delusa, un tentativo ultimo di amore e di vita, prima che la gioventù sfiorisca e nasca quell’essere arido e scontento che è la zitellona! Cosa di tutti i giorni !

Le rivolsi subito la parola dicendole di calmarsi; ella era in preda ad una commozione tale che i denti le battevano, il petto le sussultava ed il suo viso era così pallido che pareva stesse per rendere l’ultimo fiato.

Quando si fu un po’ rimessa, a gran stento mi disse che non poteva reggersi in piedi, che non voleva andare alla Maternità perchè dopo avere sofferto orribilmente per nascondere il suo stato, non si sarebbe potuto evitare che lo venissero a sapere i suoi.

Il caso richiedeva una risoluzione immediata, me ne avvidi. Il suono delle voci dal salotto  arrivava nell’anticamera dove la sconosciuta, con i gomiti appuntellati alle ginocchia, la faccia tra le mani, la persona piegata in due, singhiozzava convulsamente.

Capivo che la portinaia era fiera di fronte a me della sua buona azione, ma non vedeva l’ora di riversare sulle mie spalle il fardello che s’era addossato e colla scusa di vedere se il marito si calmasse fece per andarsene.

_ Un momento, le dissi trattenendola.

 

L’idea che m’era balenata era molto audace. Alcuni mesi prima avevo aiutato con piccole sovvenzioni fatte a titolo di prestito, una signorina tedesca già matura, alla quale avevo procurato pure lezioni di lingue; l’avevo aiutata pure ad ammobigliarsi un piccolo quartierino al quinto piano della casa vicina, proprio quella ove stava l’inflessibile cerbero guardia municipale.

Che direste se tornassimo proprio alla vostra casa ? – feci alla portinaia

Ah per carità – replicò ella spaventata – mio marito mi accoppa!

La maestra … è ancora in campagna? Avete la chiave non è vero?-

La maestra … è tornata proprio ieri, rispose la portinaia, sollevata, avendo capito ma crollando subito il capo sconfortata.

Non importa. Andiamo da lei.

Scrissi un biglietto per una levatrice di mia conoscenza pregandola di recarsi subito all’indirizzo che le davo della casa attigua e al piano dove abitava la maestra di lingue; quindi preparai con la mia cameriera un fardello di biancheria e dopo poco rientrai nel salotto e mi scusai di dovermi assentare.

E qui viene fuori uno di quei due ex-galeotti, impiegati da me nella fiera di beneficenza e di cui ho fatto qualche cenno in uno dei miei racconti. Ogni sera, chiuso il negozio della vendita, egli mi riportava le chiavi; quella sera arrivò proprio in buon punto per aiutarci.

 

Alto di statura, con due spalle erculee, una grossa testa coronata di capelli fulvi, Francesco era un tipo che a prima vista non ispirava troppa confidenza.  Uscito dal reclusorio dopo una condanna per omicidio, e rivoltosi al Comitato della società per i liberati dal carcere allo scopo di avere lavoro, non era riuscito a trovarne in causa della diffidenza che ispirava.

 

Appena entrato gli dissi che avevo bisogno di lui per tutta la notte; mentre aiutavo la donna a salire alla casa della maestra, egli col mio biglietto andava a prendere la levatrice. Erano le nove di sera; la notte serena, la sconosciuta pallidissima, appoggiata al mio braccio, pareva non si reggesse in piedi. Io mi chiedevo come fosse cominciato quel dramma che era ormai all’epilogo, quale fosse la storia d’amore tradita, quali le angosce sofferte da quella poveretta che, sola e abbandonata, espiava

tanto duramente un attimo di oblio. Secondo tutte le probabilità, a giudicare dalla faccia buona, quella donna era una delle solite vittime, v’era un vile uomo che secondo la legge non aveva nessuna responsabilità mentre ella stava per mettere al mondo una creatura che sarebbe certamente un’infelice, come tutti gli esseri nati in un attimo di voluttà colta a volo, rubata. Avevo il cuore gonfio di pietà e insieme di un sordo rancore.

 

Arrivati al n.14, la portinaia trovò che la maestra era uscita, ma che aveva lasciato giù la chiave. Non c’era tempo da perdere, salimmo come potemmo, aiutate dalla mia cameriera che ci aveva raggiunte mentre la portinaia saliva all’abbaino per prendere le povere robe dell’inferma.

 

Rispettata la camera da letto della maestra, approfittai d’un ottomana che occupava quasi per intero un salottino. Subito la feci preparare con la biancheria portata e vi feci entrare l’ammalata che si abbandonava alle mani della cameriera come un corpo senza vita. La levatrice e Francesco non tardarono ad arrivare ed ella senza chieder nulla né mostrar alcuna meraviglia diede uno sguardo alla donna e si pose senz’altro ad allestire i preparativi minuziosi con cui si accoglie l’affacciarsi alla soglia della vita di un nuovo cittadino del mondo.

 

Il più importante e il più difficile ormai era compiuto; le lenzuola di bucato, la morbidezza del letticiuolo non mancarono di operare un buon effetto sul corpo stremato della misera, che appena accomodata sotto le coltri emise un sospiro di sollievo, profondo come un gemito. Uno sguardo triste e dolce dei suoi occhi semivelati, un tenuissimo sorriso della sua bocca dissero grazie, poi si sopì.

 

Respirai un momento, ma tosto mi prese l’inquietudine al pensiero di dover spiegare alla maestra la stranezza di quella invasione in casa sua. Costei era una zitella piuttosto attempata, un essere mummificato di dentro e di fuori, sebbene dimostrasse sempre con parole diffuse un sentimento di devozione verso di me, che ora stavo per mettere a dura prova. Mi spaventava la sua severità intransigente nei principi della morale stabile, la sua ferocia contro i peccati d’amore manifestata ad ogni proposito.

 

Giunse finalmente, e qui la penna di un grande scrittore sarebbe necessaria per dare un’idea della scena che seguì. Magra, piccola il suo viso faceva venire in mente le mele raggrinzite da una forte brinata: girava intorno un paio d’occhi pieni di tutti i rimproveri, senza profferir sillaba, come se lo stupore le avesse paralizzata la lingua. Invano io chiedevo aiuto alla più appassionata eloquenza per rassicurarla che alla fine non aveva nulla da temere, che tutto in pochi giorni sarebbe tornato all’ordine di prima. Nello scompiglio delle sue idee, la più forte ebbe il sopravvento sulle altre; riacquistato l’uso della favella, cominciò a chiedere concitatamente:

 

Dov’è il mio gatto? L’avete cacciato fuori? Bisogna trovarlo subito, subito

 

Si abbandonò su una sedia e non ci fu verso di calmarla, finchè col prolungarsi dei suoi lamenti non riapparì il gatto, crucciato e offeso, anche lui, sì che mentre noi lo si cercava di ammansare tendendo le mani sotto gli armadi, egli miagolava sulla scala.

 

Quando tutto fu in ordine, cioè la levatrice presso il letto dell’ammalata. Francesco in cucina a prepararle un cordiale per quando si fosse risvegliata, lasciai la casa sperando di essere ancora in tempo per non suscitare nei miei ospiti il sospetto che qualche cosa di stranamente insolito fosse successo.

 

Per istrada benedicevo l’incidente comico del gatto, il quale assorbendo tutto il pensiero della padrona aveva evitato una scena certamente più spiacevole. Passai una notte quasi insonne; il contegno della maestra di lingue non era tale da lasciarmi tranquilla e nulla mi assicurava che dopo la mia partenza ella non si fosse sfogata sulla forestiera. Nè sul fatto dell’invasione mi sentivo la coscienza troppo quieta. Poichè, vi sono azioni o fatti che, o si comprendono di prim’acchito e si valutano alla stregua del sentimento che li ha provocati, e allora non c’è bisogno di spiegazioni; se no tutto quanto può essere invocato come giustificazione è lettera morta.

 

Non era giorno ancora che la cameriera entrò e a voce sommessa mi disse:

 

C’è Francesco che vuole assolutamente parlarle.

 

Il dormiveglia nel quale m’ero leggermente assopita disparve: infilai in fretta una vestaglia e, appena fui nella camera attigua, interrogai ansiosa Francesco.

 

Bisogna che lei si vesta – mi rispose – e venga subito lassù. Quella brutta vecchia col suo infame gatto tortura la nostra ammalata. L’ottomana dove l’abbiamo coricata era il posto prediletto del gatto, il quale non ha cessato un istante di girarvi intorno miagolando e tentando di salirvi.  La vecchia è furente contro di me e la levatrice, perchè abbiamo finito col buttarlo fuori: le ho promesso di torcere il collo alla sua bestia e magari a lei se non la smetteva …

E nel dir questo il viso di Francesco aveva un’espressione così minacciosa, che non lasciava dubbio alle sue intenzioni. La situazione era ben imbarazzante: tuttavia sprizzava da essa un zampillo di comicità e non potei trattenermi dal ridere quando l’ex-galeotto soggiunse:

Torno lassù perchè devo fare la guardia ad un pollo che bolle ed ho una gran paura che la vecchia voglia regalarne qualche polpa alla bestiaccia, per compensarla della cuccia che gli abbiamo tolta.

 

Egli partì e io lo seguiì poco dopo, curiosa e un po’ ansiosa  di vedere che cosa avveniva. Lo trovai che faceva la guardia alla sua pentola con l’atteggiamento di chi veglia un deposito sacro: mentre la padrona di casa si preparava la colazione col viso più raggrinzito del solito, esprimente un dispetto tanto più fiero quanto impotente e mescolato a una tremenda paura. Compresi che era armata contro di me e che erano necessarie grandi abilità diplomatiche, audacia e fermezza. Speculando vilmente sul suo spavento feci le finte di non vedere il gesto di protesta con cui mi accolse, e mi diressi difilata nella camera dell’inferma.

 

Il parto era prossimo ma si annunciava difficile ed estremamente doloroso: la levatrice seduta al capezzale teneva nelle sue le mani della paziente sul cui viso colavano grosse goccie (sic) di sudore mescolate alle lacrime che scaturivano dagli occhi esprimenti la sofferenza acuta, atroce eppur rassegnata di certe bestie spossate. Ella pareva totalmente estranea a tutto quanto la circondava: non avvertì il mio entrare e non fece un moto al mio avvicinarmi, la levatrice sola, cercando di attenuare la voce fremente di una collera compressa, mi trasse accanto per dirmi:

 

Cara signora non ne posso più! Io e quel brav’uomo non abbiamo fatto altro che battagliare tutta la notte con la megera che non intende affetto umano e si preoccupa unicamente del suo gatto. Ha approfittato della sua assenza per penetrar qui ad insultar questa disgraziata. Ho cercato di mitigar la gravità di ciò che ella ha fatto col farle considerare l’urgenza del caso, ma non ha voluto

intender ragione, e nessuna argine ha arrestato il fiume della male parole uscite da quella bocca. Ho fatto chiamar lei appena spuntato giorno perchè ci metta rimedio: un’altra scossa, un’altra commozione potrebbe avere conseguenze irrimediabili.

 

Per quanto fossi persuasa di aver agito imprudentemente aggrappandomi alla prima idea che m’era balenata, non immaginavo che mi sarei trovata impigliata in un simile ginepraio. Mi avvidi che ormai bisognava rimanerci dentro ancora un po’, ed evitare con ogni cura altre punture e graffiature sopra tutto alla sofferente: quando il bambino fosse venuto al mondo, si sarebbe trovata una via d’uscita. Pur troppo le ore più angosciose non erano ancora passate e dato lo strato di estrema debolezza della donna, tutto era da temere!

 

Fortunatamente per noi la padrona di casa era costretta a star fuori per le sue lezioni la maggior parte del giorno: e fu durante una delle sue assenze che il nuovo arrivato si affacciò alla soglia del mondo. Era un maschietto. Altre cure gravi e delicate ora si imponevano: ma io pensavo di esser già a buon porto perchè la puerpera stava abbastanza bene, quando al mio ritorno dopo una breve visita a casa mia, trovai al sommo delle scale la maestra di lingue, ferma sull’uscio evidentemente ad aspettarmi. Compresi che l’uragano stava per scatenarsi e decisi di affrontarlo: se l’invasione del suo domicilio, l’usurpazione della cuccia del gatto, l’avevano esasperata, la nascita del bambino  la traeva addirittura fuori di sé. Il povero essere innocente, esile e meschino,  che portava le traccie delle angosce materne, rappresentava alla sua virtù, fossilizzata in una rigida purezza, il massimo dello scandalo. Mi sbarrò il passaggio e con occhi terribili, con voce sibilante minacciò di gettare il bambino fuori dalla finestra se non si toglievano subito quelle “porcherie” fuori dalla sua casa, e di chiamare subito la polizia, perchè io, che portavo nei focolari onesti della gente spregevole imponendola colla violenza, non meritavo altro che un processo.

 

Non era il caso di rispondere, poiché ella strillava come un’aquila, forte dei suoi diritti: soltanto cercai di passar oltre, allontanandola con un atto più energico che cortese. Mi illudevo che la levatrice  e la puerpera non avessero udito nulla, purtroppo la scena fatta a me non era che la seconda edizione di un’altra di cui erano state vittime le due donne che non sapevano nulla.

 

La furia aveva vomitato su di loro una torrente di insulti. Fortunatamente la levatrice troppo conscia

della gravità e delicatezza del suo compito, non aveva perduto la calma e scongiurava l’infelice, più morta che viva, a non badare a quella pazza e a ricordare che era madre da poche ore e che ormai tale aveva il diritto al rispetto di chiunque avesse un po’ di buon cuore e di buon senso. Povera martire! Quella era l’ultima tappa del suo Calvario! Nulla era stato risparmiato alla sua maternità.

 

Ci mettemmo d’accordo con la levatrice di portar via subito il neonato; la madre stessa lo desiderava tanto l’aveva empita di terrore la minaccia della vecchia strega di buttarlo fuori dalla finestra. A lei si sarebbe provveduto subito dopo, intanto bisognava portar via dalla casa onesta l’infante, prova vivente del disonore, e nasconderlo in mezzo ai suoi compagni di sventura e di mistero nell’istituto che apre le sue porte ad una folla di creaturine miserabili, destinate per la massima parte a non conoscere mai chi diede loro la vita. Stavo per chiamar dalla cucina Francesco e dirgli di andar in cerca di una carrozza, ma dovetti aspettar che l’ex-galeotto finisse di dare alla vecchia zitella una lezione di morale molto energica, condita di frasi caratteristiche, reminiscenze senza dubbio del bagno, intercalate dal ritornello di torcere il collo al gatto e alla padrona. La sua collera era alimentata anche dall’idea fissa che durante la sua assenza, il gatto avesse divorato una parte del pollo. Stimai opportuno lasciar passare la burrasca mentre nel salottino facevamo frettolosamente i preparativi per la partenza del neonato. Era diffusa una debolissima luce in cui ci muovevamo come ombre; la giacente singhiozzava facendo nel suo cuore gli ultimi addii al nato delle sue viscere dal quale si doveva separare forse per sempre. Nel brevissimo tempo tutte le peripezie seguite l’avevano trasformata: il dolore come simbolo non avrebbe potuto trovare figurazione più espressiva.

 

Quando finalmente Francesco, posto fine all’alterco, discese e ricomparve di lì a poco dicendo che la carrozza aspettava, ci disponemmo alla partenza. Il bimbo ben fasciato fu accostato dalla levatrice alla madre che lo baciò e ribaciò con quelle sue labbra sbiancate, e poi voltò la testa verso il muro con una mossa pacata di cupa disperazione che nient’altro diceva se non il desiderio infinito e tragico di uscir dalla vita e dalla coscienza, di cessar di soffrire.

 

Tutti piangevano. Francesco in un angolo si torceva i pochi peli fulvi dei baffi, mentre tutta la faccia era contratta dallo spasimo.

 

All’uscire intravedemmo la stremenzita padrona di casa che scomparve non appena la voce di Francesco passandole vicino fremette

 

Chi tocca il bimbo l’accoppo

 

Avendo lasciato la mia cameriera al letto della puerpera ero abbastanza tranquilla. La levatrice mi aveva assicurata che la tempra assai robusta di lei non avrebbe soggiaciuto a tante scosse; ella poi mi riempì l’animo di commozione e di riconoscenza allora che, in carrozza, col bimbo sulle ginocchia, prendendomi le mani mi disse:

 

Domani a qualunque costo la porteremo via da quella casa. Ha estrema necessità di quiete e di riposo, la condurremo a casa mia; il mio appartamento è già ristretto per me e per i miei figli, ma troveremo modo di accomodarci.

 

Tutte le contrarietà non erano ancora finite purtroppo. Nella confusione e nello scompiglio la levatrice non si era ricordata che ad una certa ora cessa all’ospizio l’accettazione dei neonati: quell’ora era appunto passata. Tuttavia tentammo di farlo accogliere d’urgenza, ma non riuscimmo; ci fu risposto che il regolamento parlava chiaro che era inutile insistere.

 

Rimanemmo fuori, rifinite dalla fatica, istupidite, imprecando alle disposizioni burocratiche per sottostare alle quali si dovrebbe stabilire un orario fisso a tutte le funzioni e a tutti i fenomeni della natura e della vita. Dopo esserci consultate, col nostro fardello tra le braccia, ordinammo al cocchiere di andare all’ospedale; ma non fummo fortunate. Non si accettavano neonati. Caso volle che proprio nel momento in cui era massimo il nostro impaccio, vedessi scendere la scalinata un medico di mia conoscenza. Mi afferrai a lui: gli raccontai la nostra odissea, le condizioni in cui era nato il fanciullo ed egli mosso a compassione mi consigliò di portarlo all’ambulanza ostetrica dove quella notte egli sarebbe stato di guardia.

 

Affidatelo senza timore all’inserviente ditegli di collocarlo nel mio letto.  Ci faremo compagnia. Non preoccupatevi del resto; questo signorino non ha bisogno che di caldo e di qualche goccia d’acqua zuccherata. Giovannino se ne intende e sarà un’ottima balia.

 

Strinsi con effusione le mani di quell’uomo di scienza tanto semplice quanto buono che eliminava tutte le difficoltà e mi liberava da una responsabilità angosciosa. Chè, durante le corse affannate in carrozza mi era sembrato di momento in momento veder esalare l’ultimo respiro da quel corpicino esilissimo.

 

Riprendemmo la via con maggior coraggio; affidammo il bambino a Giovannino che subito si diede cura di lui come la più affettuosa delle madri, e sollecite entrambe, io di riveder la mia ammalata, la levatrice di tornar a casa dove i figli l’aspettavano, ci salutammo con gli occhi negli occhi senza parlare.

 

La notte intanto era calata interamente, avevo le membra spezzate dalla fatica, ma non sentivo bisogno di cibo, il mio compito non era ancora finito. La povera madre mi attendeva Dio sa con quale ansia!

Dinanzi all’uscio della maestra di lingue dovetti aspettare prima che mi venisse aperto;  finalmente udii il rumore di mobili smossi e poi del passo pesante di Francesco che si avvicinava.

 

Senza perdere tempo in interrogazioni, mi avviai alla camera della puerpera e quivi rilevai subito del disordine fra le poche suppellettili. Francesco se ne accorse.

 

Sono stato io che ho consigliato la cameriera di barricarsi dentro per impedire alla vecchia strega di entrar qui, essa ha giurato di perseguitare fino all’ultimo questa infelice ed approfitta delle nostre assenze per far le proprie vendette. Per quanto abbia cercato la chiave non sono riuscita a trovarla.

 

Quel sistema di rappresaglie ed i mezzi di difesa usati da Francesco mi fecero sorridere:

 

Andate a riposarvi – gli dissi –  e ormai non abbiate più paura. Il piccino è al sicuro,

domani vi metteremo anche la madre. Voi dovete essere stanco.

Io stanco? Che cosa le viene in mente? No no; veglierò anche questa notte. Non mi fido di quella brutta megera; non ha timore che di me e di Lei, se manchiamo tutti e due è capace di far l’inferno qui dentro. E poi potrebbe occorrere di uscire.

 

E, rigido e compassato, si collocò in un angolo, come una sentinella che si lascia far a pezzi piuttosto che venir meno alle consegna.

 

Dura fatica a persuaderlo ad andarsi a prendere delle vivande e del vino per combattere quelle nuove ore d’insonnia che affrontava tanto volonterosamente per la seconda notte.

 

Chi lo crederebbe? L’indomani mattina mentre Francesco era sceso a prendere del latte, la vecchia pazza, per sfogare la bile che la rendeva furente, superò la paura, con la stessa rabbia dei giorni passati riprese la sua feroce persecuzione vomitando ingiurie e vituperi attraverso la porta chiusa.

Io avevo lo spavento che l’antico istinto sanguinario di Francesco non avesse il sopravvento sulle mie esortazioni e prorompesse in qualche eccesso, sicchè deliberai di condurre subito la giovane madre dalla levatrice.

L’ex-galeotto stesso era impaziente di arrivare a questo perchè non rispondeva più di sé.

 

Non si dia pensiero  – mi diceva – io la porterò per le scale fino alla carrozza; e nelle mie braccia starà come nel letto. E’ una piuma. Non vede che è ridotta pelle e ossa. Quanto a quella furia, deve ringraziare loro due se respira ancora. Non so come mi sia trattenuto dal tirare il collo a lei e al suo gatto!

 

L’ex-galeotto sollevò dal letto l’inferma, la sorresse, la tenne fra le braccia, con la testa appoggiata alla sua spalla, scendendo le scale, la confortò con quelle frasi brevi e rudi che sono privilegio soltanto della gente semplice e, dopo il tragitto, la pose nella nuova nicchia bianca, accomodandole le coltri ed i cuscini tanto lievemente che io e la levatrice lo guardavamo chiedendoci se una madre avrebbe potuto far di più e meglio.

 

Io e Francesco tornammo alla casa della donna virtuosa, per rimettervi tutto in ordine: nessuna traccia doveva rimanere della nostra irruzione che aveva suscitato tanti scandali e tanti guai.

 

Rimisi la chiave alla portinaia con una busta che conteneva il mio biglietto da visita e del denaro che rappresentava un compenso per l’ospitalità forzata, o dirò meglio, usurpata. Ebbi ancora una lotta da sostenere tra il mio scrupolo di esagerare in una specie di postuma correttezza, e la brama feroce di vendetta di Francesco.

 

Come poteva egli far pulizia e metter tutto a posto, se l’unico suo pensiero era quello di lasciare una vittima che riducesse la vecchia alla disperazione? Egli pregustava la gioia feroce di stendere il gatto morto irrigidito nel letto della vecchia, e andava in visibilio immaginandone l’orrore quando fosse tornata e avesse trovato cadavere l’unico essere caro al suo cuore. Per fortuna il gatto aveva preso la via dei tetti; senza quella buona ispirazione nulla l’avrebbe salvato dalle dita d’acciaio dell’ex-galeotto.

 

Giravo intorno gli occhi per assicurarmi che tutto aveva ripreso la primiera disposizione, quando vidi Francesco chino in un angolo in un atteggiamento sospetto, mi balenò l’idea ch’egli tendesse una insidia all’oggetto del suo odio implacabile con un tentativo di avvelenamento: sicchè lo rampognai aspramente.

 

Oh perdio! – egli esclamò – mi lasci almeno questa misera soddisfazione. Neanche gli ossi del nostro pollo voglio lasciar qui per quella bestiaccia!

 

Da quel giorno non mi sono mai ritrovata una volta con lui senza che mi rammentasse la storia  che ho raccontata e concludesse con un’ostinazione incrollabile:

 

–  Creda, una lezione era necessaria! Almeno il gatto!

 

a cura di Donatella Massara