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Commento su alcune lettere di ANTONIA POZZI scritte fra il 1933 e il 1935

 

 

Antonia Pozzi nel 1933 conclude la sua storia d’amore con Antonio Maria Cervi, Antonello. La sua produzione poetica è raccolta nell’itinerario della Vita sognata, sono opere che invia a lui durante questo anno della ‘terribile scelta’, nel frattempo fa amicizia con il poeta Tullio Gadenz al quale indirizza lettere ritenute molto importanti per capire il suo sviluppo poetico. Nello stesso anno compie un viaggio nel sud Italia con la zia, in maggio. In estate si reca con Elvira Gandini a Breil (Cervinia). Possiamo dire che questo è un anno di svolta perché c’è il passaggio sentimentale della rottura e si riflette sulla sua produzione poetica.

 

Nella lettera a Elvira dell’8 agosto 1933 (Antonia Pozzi, Poesia che mi guardi, (a cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino) Luca Sossella, 2010 pag, 463) parla della vacanza in montagna. La definisce un «crepaccio azzurro» nella monotonia della vita. La vita con le amiche era per lei un evento che la spinge a nuove imprese. Nella stessa lettera parla di raggiungere traguardi, di rafforzamento, di spingersi oltre, ricorda anche la bellezza che aveva accompagnato quelle sere passate insieme in montagna, mentre Elvira suonava l’armonica e la musica si diffondeva per la valle, parlando con i lumi dei pastori e con le stelle che si coricavano fra le rocce. Antonia nelle amiche trovava un universo simbolico stimolante.

In questa lettera gli spunti suggestivi sono quelli della sua escursione in solitaria sulla Grigna, nella notte di luna piena, godendo dell’alba e dei primi suoni di campane che arrivano dalla valle. Lo spazio dell’amicizia fra donne è un luogo di azioni che hanno in cuore le altre, mentre è in cima alla vetta le ritorna il ricordo delle sere di Breil a farle compagnia. Antonia sta ricercando l’atmosfera della vacanza con l’amica, dei punti fermi, e vorrebbe andare oltre, costruirsene sempre di più forti. Sfida il suo corpo a sostenere la fatica per raggiungere mete più lontane.

E’ un viaggio solitario ma fatto in compagnia dell’amica, un‘esercitazione per raggiungere insieme nuove sfide. La montagna – le dice – ci insegna a ’durare’, non a ‘finire’. La lezione della montagna, spazio amicale, femminile, di sofferenza e godimento insegna a costruire viaggi che possono anche non concludersi. Durare nonostante gli squarci e gli strazi, dice: continuare dunque, non darsi degli obbiettivi fermi, ma vivere il viaggio. La lettera all’amica apre un orizzonte aperto dalle relazioni fra donne, intesa come una comunità promettente, degna di affidamento per le reciproche speranze, fattiva e proiettata verso il futuro. Una dimensione di cui Antonia aveva un grande bisogno e che la divideva, almeno un attimo, da quella speciale familiarità poetica con la morte, che evoca già nel ’29 in Canto della mia nudità dove «stesa supina sotto troppa terra, starò, quando la morte avrà chiamato.»

La lettera inviata a Remo Cantoni, scritta il 14 aprile del 1935 (id. pag, 471), è rivolta all’amico con gli “occhi buoni”, come lo aveva definito il 12 marzo del 1935 (id. pag, 419), che, a giugno, durante la permanenza in casa sua, scopre potevano diventare “cinici – non più né fraterni né pietosi-” (id. pag.474).

La lettera a Remo di aprile è molto più intimista di quella all’amica, non c’è nessun agire proposto e spazia su un universo soggettivo giocato fra sé, Pasturo e la casa. Il paesello è un luogo dell’anima e sta per accogliere un altro. Un altro a cui non si prospettano passeggiate, escursioni, mete ma paesaggi di fiori. E’ un paesaggio molto più modesto quello che Antonia propone a Remo, molto più famigliare e conciliante, non c’è sfida. C’è piuttosto la purezza del luogo che lei vive come un cristallo senza increspature nel quale passano le sue esperienze, come se qui lei pensasse di essere se stessa, apertamente immersa nei respiri del tempo, dei volti, delle immagini, delle cose amate che la contengono. E giustamente lei teme che questo posto a lui risulti insignificante “Vorrei raccomandare alle cose di farsi il meno brutte possibile” scrive nella lettera. Antonia precede Remo, perché non vuole subire un’irruzione aggressiva nel suo luogo d’amore. Remo è entrato certamente in sintonia con Antonia ma è anche più che un amico, è la sua conquista, è il suo “secondo amore”- come lo chiama lei –  (Graziella Bernabò, Per troppa vita che ho nel sangue, Viennpierre, 2004, pag. 188) dopo la storia dolorosa con Antonello. Vorrebbe un rapporto di coppia a cui lui, a quanto capiamo, era restio. Antonia gli svela il suo sentire soggettivo, interiore, il movimento delle sensazioni che la accompagnano, un linguaggio che spesso ho colto nelle lettere agli amici, più che alle amiche. Nella casa che l’accoglierà Antonia vuole che lui sappia che c’è tutta se stessa, che ama quel luogo, lì si affacciano le ombre delle persone passate e fra queste mura lei sente alitare la storia della sua vita. Perché gli dice tutto ciò? Perché è in un rapporto di fiducia con lui. Antonia gli sta raccontando come Pasturo sia per lei un punto imprescindibile, il suo riferimento, un naturale luogo di riconversione delle acquisizioni, perché qui è «l’aria stessa» che «conserva» il senso delle ore vissute. E’ questo un punto importante che ci descrive un’apertura nella continuità stolida del tempo in cui lei può rientrare con le sue emozioni, i ricordi non sono fredde rammemorazioni ma un impasto forte di sensazioni che le restituiscono la pace, la limpidezza, forse la solidità del suo essere. Per Remo dunque c’è l’offerta della soggettività, quella che è passata al setaccio della coscienza, ma c’è anche la sua sensibilità. Il corpo di Antonia si affaccia attraverso l’odore degli oggetti della casa, la promessa dei prati infiorati, la rassicurazione che qui ha portato tutte le persone che gli sono state più care. Il suo corpo è presente ma non tanto nell’ovvietà metaforica della casa, come luogo da assaporare con delicatezza, ma piuttosto nello spazio materiale dove lei sta scrivendo la sua lettera e dove ha scritto altre pagine di diario, lettere, poesie, dove ha guardato le sue fotografie e ha scoperto già nel febbraio di quell’anno dove nella “gioia di continuare sola/nel limpido deserto dei tuoi monti/ora accetti/ d’esser poeta.” L’invito verso l’ospite è quindi quello di un corpo femminile sensibile, presente, senziente ma che fa tutt’uno con la sua poiesi, capacità creativa di produrre, con la poesia.

Antonia ha voluto questo rapporto. Non pienamente corrisposto, lei lo ha accettato lo stesso. Poi dirà, nella lettera a Vittorio Sereni del 20 giugno del 1935 (Antonia Pozzi, Poesia che mi guardi, id. pag.473) scritta nel mezzo di questa vacanza, che fra lei e Remo le differenze sono incolmabili: di gusti e di modi di pensare e di reagire. Alla fine di questo soggiorno estivo a Pasturo troveranno una conciliazione e Antonia accetterà quello che era più difficile per lei da vivere: la sessualità maschile. Avrebbe voluto che «la cosa fosse completa» ma anche questa scelta non era stata ricambiata, e anche ciò è giusto, dice (id.pag.478). Eppure Remo voleva fare di lei «una vera donna» e lei pensava che una “vera donna” non lo sarebbe stata mai (pag.473). Aveva ragione. A fine agosto Remo se ne è andato da Pasturo.

La loro relazione sentimentale non aveva abbastanza ragioni per continuare. Antonia già in febbraio del 1935 aveva avvertito l’impossibilità di condividere i suoi sentimenti con lui. Ne aveva preavvertito la chiusura – dopo una triste serata mondana – e ne  raccontato nell’abbozzo di un romanzo interrotto. Nella lettera non autografa scritta il 25 agosto del 1935 (Antonia Pozzi, L’età delle parole è finita. Lettere 1927-1938, (a cura di Alessandra Cenni, Onorina Dino), Rosellina Archinto, 1989, pag.79) dove gli racconta una gita sulla Grigna, Antonia definisce se stessa «uno strambo Tognin scombinato», piena di irrequietezza, insoddisfazione, sempre a mezz’aria e con poco ingegno. Con ironia si presenta al maschile, guardandosi con tenerezza e comprensione e una profonda cognizione della propria femminilità. Non sono, però, le parole che usa scrivendo alle sue amiche, dove spesso elargisce buone parole, facendosi lei custode della loro fragilità e non viceversa.

Nelle parole con cui Antonia il 14 aprile del 1935 invitò Remo a Pasturo prevaleva la sicurezza di una scelta. Antonia sta ormai oltre Antonello, per quanto lui potesse essere ancora nel suo sentire. Antonia si è tirata fuori da sola da una storia che per tanti motivi era chiusa e questa situazione la vive raggiungendo una energica stagione poetica, insieme alla scoperta di nuove relazioni ma anche alla separazione dalle due amiche Lucia Bozzi, avviata alla vita religiosa e Elvira Gandini al matrimonio e alla scuola. Siamo in un momento “in cui avrebbe avuto necessità di un confronto e di una misura che le derivassero anche da un mondo femminile forte in cui potesse riconoscersi” come avvertiamo nella lettera a Elvira del 1933. (Graziella Bernabò, Per troppa vita che ho nel sangue, pag.214) Il 1935 è l’anno in cui nella sua vita sorge “almeno nel momento della scrittura, una forte persuasione di sé, della propria più profonda femminilità e del proprio essere senza alcun dubbio, poeta” (id. pag.216)

 

Attraverso queste lettere a Remo e a Elvira che ho interpretato ho visto un’Antonia Pozzi giovane, una promettente poeta che ha in mano le sorti della sua esistenza e sta sperimentando se stessa. Tanto più affligge l’idea che, solo qualche anno dopo, porrà fine alla sua esistenza dichiarando tutto quello che c’era stato nella sua vita degli anni: un esperimento iniziato ma interrotto perché riuscito male. Morendo consegnerà al mondo, però la grandezza di un lascito poetico, che forse lei aveva pensato non avrebbe, comunque, mai avuto una fine.

 

Donatella Massara