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Note sulla morte di Antonia Pozzi di Raffaella Gallerati

 Sepolta “nella calma olimpica e nella pace arcadica” delle montagne amate, Antonia Pozzi (1912-1938) rinasce con la sua verità da un abisso temporale, fatto di silenzi e di sottrazioni, di manomissioni e di tagli operati sul suo corpus poetico. La violazione del lascito letterario delle donne, agita spesso dalla miopia di individui, usi all’esercizio del potere e del controllo, è un fatto che ritorna nella storia della letteratura. In questo caso, è il padre della Pozzi a rimaneggiare i testi. Riordina, organizza, cancella quanto non vuole rendere pubblico, sostituisce, impone la sua parola, in continuità con quella pratica di opposizione e di diniego già esercitata sulle scelte sentimentali della figlia, prima del di lei suicidio.

Su questi gesti, estremo quello di Antonia, difensivo e autoritario quello paterno, teso a preservare il buon nome familiare, incombe l’ala nera della storia. E’ il 1938 e già si annunciano i prodromi dell’ultimo conflitto mondiale. Sono a noi tristemente noti gli scenari di devastazione e l’efferatezza dei crimini che il disarmo delle coscienze e la volontà di sopraffazione hanno saputo allestire.

Antonia, ha ventisei anni. Lacerata da annosi conflitti di intima natura, è troppo forte per tollerare imposizioni, compromessi, mediocrità. ” Del rifiuto delle cose ” ha già preso coscienza e l’esperienza dell’impossibile amore è dolore lancinante, implacabile. Presaga dell’imminente catastrofe vede ” nubi di pianto e corolle di deliri ” torcersi agli orli della terra. L’iniquità delle leggi razziali amputa amicizie che la saldano a emozioni, a pratiche, a ideali condivisi e tragicamente, ormai, deve “spegnere le luci a metà della scena d’amore”. Ancora le tocca creare il buio nell’anima per il “desiderio di quel che non s’ avvera”. Per l’ultima dolorosa metamorfosi. La tensione già alta fra il mancato conseguimento delle mete e l’istinto creativo, vitale è giunta all’immedicabile collasso. Ecco, dunque, avanzare la morte, livida, ” abbrividendo con le spalle nude”. Antonia orienta il suo sguardo sul nulla e sceglie l’eternità di un sonno che l’affranchi dalla vertigine del vuoto, dal dolore. La morte consegna il canto e il grido dell’anima, che pervadono le sue liriche, nelle mani di un padre che su quegli scritti ricostruisce un’immagine di figlia ideale e la trasfigura. Un’immagine a lui cara e necessaria, che rimane a lungo velata dal calco della sua manipolazione.

Le poesie, conoscono così una prima edizione privata, per essere distribuite dalla famiglia agli amici e ai conoscenti, appena dopo la sua morte. Negli anni che seguono, escono poche altre edizioni, finchè, di recente, alcune preziose destinatarie e studiose, imbastiscono con intento filologico, una minuziosa ricostruzione dell’intera opera di Antonia Pozzi, ridandoci la sua verità, il lampo sublime che illuminò il suo breve arco di vita.

Dal 1938, seppure Eugenio Montale e altri estimatori, abbiano avuto modo di apprezzarla, diverse generazioni si sono succedute ignorandola.

Ora il mondo accoglie Antonia Pozzi nel firmamento letterario e la colloca fra le più alte voci liriche della poesia italiana del primo Novecento.

In più latitudini, le si tributa il tardivo riconoscimento e si levano voci che interpretano la sua poesia.

 Continuo a interrogarmi, a riflettere sulla sua morte e trovo in me pensieri paralleli alla verità che appartiene a lei soltanto. Frammenti di vita/poesia vengono a galla in un intreccio immaginario..

E’ un giorno di Ottobre del 1938. Un mite e soleggiato pomeriggio di Ottobre che invita Antonia a sospendere la tensione creatrice, lo spasimo della “fertilità operosa” per un giro in bicicletta fuori porta. Sul tavolo, fra la pila dei libri e i fogli di minutissimi appunti, c’è il Corriere della Sera. Ben visibile in prima pagina l’articolo di fondo con la dichiarazione del gran Consiglio di Stato per la difesa della razza. La lettura del quotidiano l’ha messa in subbuglio, fin dal primo mattino, per la strapotenza del regime e per quelle illogiche e astoriche argomentazioni giornalistiche con cui vengono giustificati i gravi provvedimenti decretati contro gli ebrei. Le è ormai chiara l’improvvisa partenza per l’Inghilterra degli amici Paolo e Piero Treves mentre insostenibile si fa il pensiero dell’ adesione familiare alle direttive di stato, seppure per disciplina formale. Il regime impone senza mezzi termini al suo gregge che a quelle disposizioni aderisca con ” meditato convincimento. ” Il presente della giovane Antonia è ansioso come il suo immediato avvenire ma in questo vento di bufera lei ha un sogno e vuole condividerlo con Dino ” un ragazzo alto bruno con un vocione impetuoso, a cui la lega ” una solidarietà così vasta, così calma, così infinita, che..dire amore è quasi una piccola cosa “. Ora è con lui che anima e corpo tendono verso il centro più profondo del suo essere. E’ pronta alla sfida, a rovesciare come una zolla, una vita di agi, a sfidare l’ira paterna, pur di unirsi al suo compagno. Pensa che domani lo vedrà e un sorriso la ravviva; é già più distesa quando immagina di indossare giacca e pantaloni sportivi per la sua pedalata in città. Metterà anche una cravatta, oggi. La sua allure maschile che agli occhi del mondo potrebbe connotarla come eccentrica, stravagante è anche il salvacondotto per un lungo tragitto in bicicletta, in piena libertà. Mentre abbozza mentalmente la direzione, la meta, dove fermarsi e quanto restare, indugia ancora un pò al tavolo. La stanza, con “la bella caduta di foglie di pizzo” delle tendine rosa è limite nonchè connessione con un altrove che è dentro di lei, che modula il suo canto. E’ là, dove si spalanca sovrana la vastità della luce, che lei vuole disperdersi, tornare a solcare, come fa con Dino, la spaziosa pianura e guardare a lungo ” il tramonto nell’acqua “. E’ sull’ immagine di sè riflessa nello specchio che finisce di annodare con dita agili la cravatta. Poi, presa la macchina fotografica, scende in strada. Da via Mascheroni, si porta oltre il quartiere ticinese nelle adiacenze di Chiaravalle. ” L’ inquieto languore della capigliatura” si scioglie al vento ” sulla tensione snella del piede “.Tutto il corpo è finalmente un liquido fluire. Quando in lontananza vede stagliarsi la ciribiciaccola, o la torretta dell’abbazia di Chiaravalle, rallenta e va dove vale la pena arrivare. Va lungo ” i fossi, con le foglie secche come piccole nubi scricchiolanti sotto le ruote ” e fotografa pioppi, aie, risaie, bimbi, contadini, aratri. Abitanti e cose della periferia, così profondamente a lei cari e necessari, sanno donarsi con il loro mistero al pudore di quello sguardo che delicatamente li cattura.

Ora è totalmente aperta, ricettiva, entusiasta.. Svanisce così dai miei occhi la sua immagine ” dentro un silenzio infinito denso di suoni..”  La perdo ma più da vicino la guardo. C’è una folla in lei , una ridda di voci inconciliabili, quando si interroga e si ascolta. Una scissione che spontaneamente e magicamente si disfa nella creazione, nella luce dell’amore, nell’estasi delle ascensioni alpine o nell’assoluta immediatezza dello scatto fotografico.

Se il suo palpitare è ” vita vissuta solo dal di dentro ” la poesia, al pari della fotografia, è luce che libera dal buio ” le onde prigioniere”, l’anelito del suo essere. Poeta e fotografa, Antonia coniuga linguaggi separati in un’unica narrazione. Poesia e fotografia sono mosse dalla stessa inquietudine creativa, da uno sguardo che nel dialogo col mondo fa scoperte gioiose, ha dolorose sospensioni, orizzonti di conoscenza, lampi di coscienza.

Immergersi nel flusso dell’esistenza é per lei vivere al culmine ogni cosa di sè, del proprio mondo. Con acuta sensibilità.

Il passaggio dalla luce al buio, dal bianco al nero, è senza spazi intermedi. Messa così in gioco nell’avvicendarsi degli opposti, la sua carica di vitalità diventa simultanea consapevolezza della disperazione, del dolore, della morte. Consapevolezza e totalità capaci di cogliere l’essenza, di trasmigrare nei versi con quella forte partecipazione emotiva che sempre sottende la sua relazione con le persone, i luoghi, le cose del mondo visibile e invisibile.

L’alternarsi di luci e di ombre, di vita e di morte, tratto che caratterizza la giovane età adulta della Pozzi, è presente fin dall’adolescenza.

A sedici anni così scrive nel suo diario: “…se pure alcunchè di doloroso e di violento è passato nella mia vita tranquilla, io ho vissuto questa vita intensamente, godendo quasi delle mie stesse sofferenze, esultante per la gioia di poter vivere dentro di me, di sentirmi dentro, chiusa come in uno scrigno, un’anima, un’anima palpitante, ridente, nostalgica, appassionata; è forse per questa piena di sentimenti, per cui in una giornata soffro e godo ciò che apparentemente si può soffrire e godere in tutta un’esistenza, che rimpiango il passato, che adoro il presente, che non desidero l’avvenire…”

Solo dieci anni più tardi, Antonia Pozzi muore suicida. Giace ormai sotto i cieli di Pasturo, ” in pace come una cosa della terra, come un ciuffo di eriche, arso dal gelo”.

Raffaella Gallerati