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Alessandrina Ravizza e la battaglia femminista al divieto di accertamento di paternità per la prole nata fuori dal matrimonio

 

 

 ALESSANDRINA RAVIZZA, benefattrice

ravizza

 

Alessandrina Ravizza (1846-1919) era un personaggio molto amato a Milano. Il Parco Ravizza è stato dedicato a lei. Un suo fedele ammiratore che di lei ci parla Virgilio Brocchi, (V.B., Luce di grandi anime. Ricordanze, Milano, 1961), diventato assessore chiederà che le sia dedicato, per custodire la memoria di una donna, la santa laica, come l’aveva definita, conosciutissima nella Milano del suo tempo, una benefattrice, ma non solo anche una attenta studiosa delle riforme sociali e che, fra le altre iniziative, aveva voluto l’apertura dell’Università Popolare all’Umanitaria.

parco

 

Alessandrina Ravizza – la cui biografia è già stata presentata in questo sito da Emma Scaramuzza, (E.S., La santa e la spudorata Alessandrina Ravizza e Sibilla Aleramo. Amicizia, politica e scrittura, Liguori, 2004) la massima studiosa della sua opera, oltre che di Sibilla Aleramo (1876-1960) e di altre femministe fra ‘800 e ‘900, e i cui tratti salienti abbiamo anteposto alla nostra versione in forma di radiodramma Violazione di domicilio – si era formata con Laura Solera Mantegazza

(1813-1873) 

 mantegazza

di cui aveva condiviso gli ideali. Da lei era stata coinvolta in un rapporto che esaltava le loro affinità nello stile di lavoro. Erano entrambe decise, determinate e appassionate delle cause sociali, attività che poco aveva in comune con quelle delle dame di carità. Il loro era un impegno concreto verso i poveri che avevano sotto gli occhi. E’ quindi con questa “seconda madre” che la definisce “figlia prediletta” che Alessandrina, chiamata Sacha dagli amici e dalle amiche, compie il suo apprendistato politico. Fondano insieme la Scuola Professionale
Femminile.

 

Alessandrina, diventata presidente, in cinque anni portò la scuoletta a diventare un’impresa modello che da sette allieve passò a averne 170. Le ragazze ricevevano una buona qualificazione che gli permetteva di trovare facilmente un lavoro, imparavano infatti materie non insegnate in altri istituti, come computisteria, merceologia, disegno industriale.

 Nel 1879, durante un inverno veramente gelido, in piena crisi economica che portò al diffondersi rapido della disoccupazione, apre la Cucina per gli ammalati poveri che in 11 anni servirà 1.111.170 pasti e sarà diffusa in altre cinque sedi sparse per la città.

Affiancheranno la Cucina, l’ambulatorio medico e la sala per convalescenti, diretti, per un certo periodo, da Anna Kuliscioff(1855-1925), che era medica.

kuliscioff

 La chiamavano la “dottora dei poveri” così come Alessandrina, per riconoscenza fu investita di un titolo nobiliare e divenne “la contessa del brodo”. Fondò il Magazzino cooperativo benefico dove le donne disoccupate cucivano abiti a basso costo che poi venivano rivenduti. Nel 1903 creò la Scuola Laboratorio per donne e bambini luetici con Bambina Venegoni (1865-1952).

venegoni

Partecipò all’Asilo Mariuccia e faceva parte del Comitato per la tratta delle bianche. Tutte queste esperienze le serviranno per dirigere come professionista per sette anni, la Casa di lavoro all’Umanitaria. All’Esposizione Universale del 1903, i suoi protetti costruirono, nel Padiglione dedicato alle opere di beneficenza, una casetta in legno che riproduceva in miniatura la Cucina per gli ammalati poveri.

 La raccolta I miei ladruncoli e la questione dell’infanzia traviata

 Alessandrina amava scrivere. Il racconto Violazione di domicilio fa parte della raccolta I miei ladruncoli pubblicati
nel 1906.

 

 

In questi racconti scritti con una prosa agile, mai svenevole, desiderosa di fare partecipe chi legge della vita della gente povera, la scrittrice, ci mette fino dalla prima pagina di fronte all’origine della scelta, la sua, di donna che ha dedicato tutta la vita a occuparsi di chi non faceva direttamente parte della sua famiglia ma che per lei era diventato molto più importante. Questi soggetti erano i giovani ‘delinquenti’ che lei incontrava nella sua più estesa opera sociale.

 “Non nasce d’un tratto, né leggermente, specie in una donna, la brama di conoscere e di studiare da vicino un dato fenomeno sociale: generalmente occorre che un fortissimo stimolo faccia vibrare forte una delle corde più sensibili e delicate dell’anima nostra. Tale vibrazione profonda non si sperde invano, ma si comunica alle altre corde e si ripercuote all’infinito.

Lo stimolo che mi turbò profondamente e provocò in me la smania di occuparmi seriamente della questione, mi fu offerto da un fatto diverso: un fanciullo di quattordici anni, imprigionato da poco, si era impiccato alle sbarre della finestra del carcere lasciando scritta questa semplice dichiarazione: “Mi uccido perchè sono innocente e onesto”.

Da quel momento il pensiero del povero ragazzo, congedatosi stoicamente dalla vita, non cessò di assediarmi: fin’allora avevo ignorato che si imprigionassero i ragazzi e non mi ero mai preoccupata se tutta l’infanzia crescesse o no in seno a una famiglia, curata e nutrita.”(pag. 5)

Alessandrina nel primo di questi racconti descrive l’incontro con i piccoli delinquenti, intercettati alla Cucina per malati poveri, quasi tutta abitata da pregiudicati, da lei organizzata in via Anfiteatro nel quartiere Garibaldi, allora una delle zone centrali di Milano, abitata dalla gente povera. Roberto, un bambino brillante finisce in Riformatorio e purtroppo muore quasi subito, Cesarino e Eugenio li fa imbarcare sulla nave scuola Redenzione organizzata da un professore di Genova, ma con Lino, il re dei ladri, si stabilisce un legame più duraturo. Il ragazzino ha la tigna che tiene nascosta sotto il cappello, Alessandrina lo convince a farsela curare. Secondo i principi del tempo la cura consisteva nello strappo della stessa, cioè di tutti capelli rimasti e della pelle che ricopre la calotta cranica. Da quel momento Lino vive in casa di Alessandrina che ogni giorno gli strappa i capelli ricresciuti fino a che il medico decreterà la guarigione avvenuta. La storia finirà quando Pasqualino ormai adulto con la moglie andrà in visita da Alessandrina a chiedergli un bambino da adottare, in attesa di averne uno proprio.

 Nel 1908 Alessandrina Ravizza partecipa al primo Congresso Nazionale di attività pratica femminile.

 Era stato indetto dall’Unione Femminile a Milano e Alessandrina interviene con un’estesa relazione intitolata Provvedimenti per la fanciullezza abbandonata, traviata, delinquente, che documenta le leggi in materia, promulgate nelle altre nazioni, molto più attente dell’Italia alla questione “dell’infanzia traviata”. Cita però, la Società Pedagogica Forense e la Società per la difesa dei minorenni Delinquenti insieme all’Asilo Mariuccia per le ragazze, a cui partecipa nel 1902 con le altre femministe milanesi, prima fra tutte Ersilia Majno (1859-1933) come esempi positivi dello studio che le viene dedicato, anche da noi. “La società dispone riguardo ai fanciulli d’un mezzo più idoneo (del carcere) a impedire la delinquenza: l’educazione. Accettando queste teorie razionali messe in pratica con metodi speciali, adattabili alla natura dei ragazzi e completati da una particolare pedagogia, si arriverebbe a questo risultato: di non aver più nel diritto penale come nel civile che questa sola distinzione: minori e adulti” (pag.198) (Unione Femminile nazionale, Atti del 1° Congresso Nazionale di attività pratica femminile, Milano, 24-28,5, 1908) . “L’avversione che inspira il carcere per la fanciullezza delinquente, deva farsi strada nella coscienza degli italiani.” “Quando un minorenne commette un fallo, perchè lo raggiunga la mano della giustizia la società prende a perseguitarlo di un odio implacabile. E’ cosa veramente enorme il pensare che nelle prigioni adulti e minorenni sono trattati allo stesso modo. Vi si usano sistemi di repressione e di custodia, che hanno per risultato la degenerazione fisica e morale dei detenuti, in quell’età in cui si debbono usare i maggiori riguardi” (pag.205).

 Come si arriva, in Italia, alla proibizione di accertamento della paternità per le nascite fuori dal matrimonio. 

 La storia raccontata in Violazione di domicilio si svolge probabilmente alla fine del XIX secolo. Ciò che racconta Alessandrina mette allo scoperto il dramma delle donne incinte fuori dal matrimonio.

 Per vedere regolata la materia della prole nata fuori dal matrimonio, così che agli uomini non fossero lasciati i privilegi del legislatore, occorre passare agli anni dopo la guerra. Lina Merlin (1887-1979), costituente e senatrice della Repubblica otterrà l’abolizione dell’infamante dicitura “figlio di N.N.”- che veniva usata per definire l’atto di nascita sugli atti anagrafici dei trovatelli (Legge n. 1064 del 31 ottobre 1955)-, l’equiparazione dei figli naturali ai figli legittimi in materia fiscale, la legge sulle adozioni che eliminava le disparità di legge tra figli adottivi e figli propri, e la soppressione definitiva della cosiddetta “clausola di nubilato” nei contratti di lavoro, che imponeva il licenziamento alle lavoratrici che si sposavano (Legge n. 7 del 9 gennaio 1963). Ma sarà solo con la riforma del diritto di famiglia del 1975 che i figli naturali e illegittimi diventano equiparati e i primi riconosciuti. E’ da questo momento che l’accertamento di paternità sarà perseguibile in tutti i modi.

 Non così prima. Ancora nel 1942 il fascismo rinnovò il codice civile e sancì il divieto di indagini per l’accertamento di paternità e prevedette il procedimento preliminare al giudizio per evitare intenti ricattatori e il timore dello scandalo.

 All’origine, con l’età moderna, l’accertamento di paternità era d’obbligo. A Milano dal XVI secolo esisteva l’Ospedale Ca’ Granda che organizzava in due stanzoni, in pessime condizioni, anche la maternità.
(il cortile dell’Ospedale maggiore, particolare. Pittore Lombardo 1670-1690)

Gli esposti, e le esposte, creature che, per vari motivi, non potevano essere allevate in famiglia, venivano abbandonate al torno, il marchingegno a ruota, che permetteva di consegnare una prole che non poteva essere allevata al brefotrofio. L’etimologia della parola è rintracciabile nei significati di nutrire e di bambino. La ruota viene ufficialmente chiusa in tutta Italia nel 1868.  Nel XVI e XVII secolo la prassi era che le donne che si presentavano per lasciare un figlio o una figlia, sotto giuramento, erano obbligate a dire chi era il padre.

Dal 1730 in avanti avviene, invece, che:

  1. si allenta l’impegno per fare dire alle madri chi era il padre. Le deposizioni diventano generiche, non c’è più pressione per identificare il genitore, mentre diventa importante identificare le madri, anche se poi il loro nome potrà restare segreto

  2. di conseguenza aumentano le donne che vanno a partorire all’ospedale, sollecitate anche dall’offerta dell’anonimato

  3. è rafforzata però l’intolleranza verso le donne che partoriscono senza essere sposate, una volta che è consolidata la percezione collettiva che l’illegittimità sia un evento infamante la compensazione richiede, su spinta della chiesa, che il neonato e la neonata siano separati dalla madre. Occorre dire che da parte dell’istituzione ospedaliera le spinte andavano in senso contrario. Vennero nel corso degli anni fatti vari tentativi di affidare alle madri naturali le creature anche dandogli del denaro in aiuto. Il brefotrofio aveva il grossissimo problema di allattarle. L’allattamento avveniva attraverso le balie. Le donne che si erano affidate per partorire all’ospedale erano obbligate a restare in custodia per un paio d’anni a garantire il latte a chi appena nato non aveva più sua madre. Altri e altre venivano mandati nelle campagne, dove a pagamento, c’erano balie che li allattavano e in alcuni casi era stato anche tentato di svezzare questi piccoli esseri con il latte di mucca. In queste condizioni molte creature morivano dopo pochi giorni

  4. è rafforzata la deresponsabilizzazione del padre naturale. Nel 1784 nel Regolamento della Cà Granda è abolito il giuramento di paternità e anche l’identità delle partorienti può essere coperta dal segreto

  5. continuano a crescere i ricoverati, in maniera altalenante e in rapporto al crescere e diminuire del prezzo dei grani. Nel 1794 gli ingressi arrivano a 1700 unità, arrivando nell’anno della crisi del 1817 a 2835, con un’accelerazione dagli anni ’40 del XIX secolo per cui si arriva a 3000 e 4000, nel 1854 e nel 1865 in un solo anno arrivano al ricovero 5867 nati. Il 60% erano figli legittimi. La nota più tragica di questa vicenda, come già ho detto, e che benchè la Cà Granda sia, in lingua di oggi, una situazione di eccellenza, per il resto di Italia, la mortalità infantile è nel 1842, per esempio, del 49%.

 (Le valutazioni sono state ricavate dagli studi di Flores Reggiani in “Si consegna questo figlio”. L’assistenza all’infanzia e alla maternità dalla Ca’ Granda alla Provincia di Milano (1456-1920), Università degli Studi di Milano a cura di Maria Canella, Luisa Dodi, Flores Reggiani, Skira, 2008)

 La norma rivolta ad accertare chi fosse il padre naturale di una creatura rispondeva ai criteri evidenti di tutela sia per l’essere appena venuto al mondo che per la donna che partoriva. Ma questa evidenza viene a poco a poco a scolorirsi, dimostrando che le leggi rispondono a criteri di convenienza maschile più che all’organizzazione di quei principi naturali, appartenenti al senso comune, a cui corrisponde il formarsi della famiglia. In modo speciale è l’Italia, ispirata dal Codice Napoleonico, che infierisce su questo punto. In Lombardia invece rimane in vigore fino al 1866 la legislazione austriaca che, ispirata da diversa filosofia, obbligava, anche se con forti limiti, alla cura, al mantenimento e all’educazione dei figli illegittimi da parte dei due genitori. E’ per volontà di Maria Teresa d’Austria (1717-1780) che, fu deciso, nel 1780, lo spostamento dei tre stanzoni dalla Ca’ Granda nel Monastero di santa Caterina alla ruota, come Pia casa per gli Esposti e le Partorienti, nell’area del Laghetto, che oggi corrisponde agli edifici del Policlinico.

Le accuse delle femministe, Alessandrina Ravizza, Anna Maria Mozzoni, Jesse White Mario, Lidia Poet

 

Le femministe nel corso del XIX secolo e avanti, fino in epoca fascista, faranno dell’accertamento di paternità una delle loro rimostranze più radicali. In Violazione di domicilio sentiamo Alessandrina Ravizza esclamare quanta pena le facessero queste donne sole incinte e quanta rabbia gli uomini che mai erano chiamati a farsi carico delle loro responsabilità.

 

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 Anna Maria Mozzoni (1837-1920), una delle menti più lucide del femminismo del XIX secolo e del primo ‘900 scrive La donna in faccia al progetto del nuovo codice italiano, (Tipografia sociale, Contrada dell’Olmetto, n.14 rosso, Milano, 1865).

 

 

Il codice Pisanelli all’articolo 189 diceva “Le indagini sulla paternità non sono ammesse fuorchè nei casi di ratto o di di stupro violento”. Una deroga che, secondo l’autrice, non lo è, veramente, essendo che gli unici casi in cui è consentito indagare sono, in realtà, una doverosa inquisizione intesa a perseguire un delitto. Anna Maria Mozzoni passa allora a ragionare sul normale accertamento di paternità: “La difficoltà di constatare la paternità non è ragion sufficiente per vietarne la ricerca. Chè ne sarebbe del civile consorzio, se la difficoltà di constatare un delitto ne arrestassero la ricerca e ne assicurassero per legge la impunità? Se è possibile che un uomo onesto venga esposto ad ingiusto e calunnioso sospetto, è anche assai possibile che un uomo depravato all’ombra di un codice manutengolo, abbandoni alla fame una famiglia da lui creata, declinando snaturatamente la responsabilità, che ogni ragione ed ogni legge assegnano ad ognuno, pel fatto suo. Si proceda pure con ogni cautela, non si ammetta la ricerca della paternità senza un principio di prova in iscritto, si esigano pure quante prove e documenti si vogliono a non esporre leggermente riputazioni stabilite ed integerrime, niente di meglio; ma si lasci aperto l’adito, in nome della natura e dell’umanità, ai giustissimi reclami d’una famiglia abbandonata alla miseria, senza nome, e da tutte le classi sociali reietta.

 Se il divieto delle indagini sulla paternità pare al signor ministro la tutela della stabilità e del decoro delle famiglie, a noi sembra anche la pietra sepolcrale messa sui delitti più odiosi alla natura, lo sbavaglio spietato che soffoca i gemiti secreti dell’umana famiglia! Coprire la piaga non è medicarla, e sugellare la fogna è un curioso sistema di disinfestazione!” (pag.24,25)

 

 

Jesse White Mario (1832-1906) affronta l’argomento in Le opere pie e l’infanticidio legale (R.Stabil. Tipo-litografico Ditta A.Minelli, Rovigo, 1897)

In questo testo discute gli articoli del Codice Pisanelli che, oltre a consentire l’accertamento di paternità solo nei casi di ratto o stupro, indicava all’articolo 190 che “Le indagini sulla maternità sono ammesse. Il figlio che reclama la madre deve provare d’essere identicamente quel medesimo che fu da lei partorito”(pag. 81). La giornalista inglese che bene conosceva l’Italia non vuole credere che l’Italia sia capace di tanta ingiustizia e le sue parole sono dure. “Ma che un consesso di uomini rappresentanti la civile e cavalleresca Italia, abbia il coraggio di costringere le madri dei figli illegittimi a riconoscerli, mentre l’articolo del codice perdura, e proibisca la ricerca della paternità, questo non lo crediamo” (pag.94). L’ Italia “ove ci sono leggi fatte dagli uomini ad esclusivo beneficio degli uomini, ha privato i nati fuori di matrimonio del nome e del sostegno del genitore, quello Stato ha l’obbligo stretto di supplire per quanto può ai bisogni degli esseri che per colpa sua sono privati del naturale tutore”(pag.16). “L’Italia unita, non soltanto non ha progredito, ma ha retrocesso, ha incrudelito verso i figli nati fuori dal matrimonio. Il suo codice civile dice agli uomini: purchè non tocchiate una fanciulla durante la sua minorità, voi potete sedurre e rendere madri quante donne volete, non solamente la legge non vi molesta né vi costringe a mantenere i figli che avete generato, ma vi protegge contro qualsiasi molestia; la povera donna deve sopportare tutto il danno e la vergogna non può mostrarvi a dito per un vile che l’ha sedotta, poi abbandonata! Godetevi, soddisfatto ogni vostro capriccio, la società in genere ne sopporterà le spese e i poveri figli o saranno legalmente uccisi, o rimarranno per tutta la vita gente fuori legge; una casta di iloti derisi, maltrattati, incapacitati dalla nascita a competere a patto eguale coi loro coetanei legittimi”(pag.79,80). In accordo con quanto sosteneva Alessandrina Ravizza, anche Jesse White Mario pensa che l’infanzia abbandonata crei la malavita e accusa “Che nome dare agli italiani se non quello di fabbricatori di delinquenti?” (pag.85). Con lo sguardo trasecolato di chi ha visto che in tutta Europa i padri sono chiamati al mantenimento della prole e di conseguenza non esistono più brefotrofi, Jesse White Mario domanda come sia possibile che gli uomini siano lasciati alla più totale impunità, in Italia, dove gli istituti per l’infanzia abbandonata sono predisposti all’infanticidio come la famigerata Annunziata di Napoli dove la mortalità raggiungeva il 90% dei ricoverati nei primi giorni di vita.

 

poet

Lidia Poet (1855-1949), la prima donna che si laurea in legge in Italia, interviene al primo Congresso Nazionale di attività pratica femminile con una relazione nella sezione dedicata a La condizione giuridica della donna italiana e esprimendosi sia sul diritto privato che su quello pubblico parla anche sul tema del divieto di accertamento della paternità. “La donna sedotta che ha compiuto i sedici anni non ha azione contro il suo seduttore per quanto finallora fosse stata illibata la sua condotta, per quante promesse, raggiri, inganni siansi usati dall’uomo per farla consentire ai suoi fini. Egli è tenuto in alcun modo a risarcire il danno gravissimo cagionatole, e non può neppure essere obbligato a provvedere in lieve parte al figlio nato dalla sua colpa, per quanto risulti indubbiamente suo – le indagini sulla paternità non sono ammesse! Così questo premio di impunità dato all’uomo, contribuisce da una parte a mantenere le abitudini di vizio e di cinismo spudorato di una moltitudine di uomini, e accresce giornalmente la triste schiera delle donne perdute e dei delinquenti. Veramente tenuto conto del giudizio dei più, dello spregio e del disonore che cadono sulla ragazza madre, i quali non hanno adeguato riscontro che nell’indulgenza e la semi ammirazione che si tributano al suo seduttore, occorrono virtù d’animo e di sentimento al disopra dell’ordinario per mantenersi sulla retta via dopo un primo fallo e così la povera tradita scivola nell’abisso della dissoluzione – quando non va a finire in carcere per aver voluto o vendicarsi o sopprimere la vivente prova del suo fallo – e il bambino abbandonato è destinato alla delinquenza giovanile sempre più paurosamente numerosa.” (pag.150-151)

 

Giolitti nei primi del ‘900 predispone una legge per riorganizzare l’intero settore degli esposti dell’infanzia abbandonata ma si guarda bene dal riformare l’articolo sul divieto di accertamento della paternità. Vari deputati, in sede di dibattito, espressero il loro favore per una riforma dell’articolo, pensando che fosse profondamente ingiusta questa impunità. Ma Giolitti aveva delle idee molto misogine sulle donne, infatti affermò che queste madri che abbandonano i figli certamente avrebbero indicato un uomo diverso dal vero padre con l’intento di organizzare un ricatto, e quindi tanto valeva vietarglielo e lasciare che il buon nome degli uomini non rischiasse di essere infangato. Tanto più che in ogni caso la natura si opponeva a questo riconoscimento che invece non valeva per la madre e quindi bene sarebbe stato che in maggiore età l’abbandonato venisse riconosciuto da essa. Per salvare lui e la patria dall’aumento della delinquenza in crescita negli istituti per l’infanzia abbandonata. Insomma la parola passava tutta alla madre, unica componente certa di una procreazione e sulla funzione paterna, in questo clima di presunzione postunitaria, evidentemente si poteva soprassedere. 

Non tutti gli uomini erano d’accordo sulla totale irresponsabilità degli uomini. Certo non lo era Ernesto Grassi direttore del brefotrofio milanese dal 1890 e che parlava di “ripugnante affermazione dell’egoismo maschile  e del diritto del più forte” (cit. in Flores Reggiani, “La famiglia dell’Ospedale” in Si consegna questo figlio, pag.95). Non lo era neppure Lollini il parlamentare socialista marito della femminista Elisa Agnini, una delle fondatrici dell’Associazione per la donna 

agnini

che si battè per fare passare una legge sul riconoscimento dei figli illegittimi, quando nel 1920 stavano per chiudersi sotto il fascismo tutti gli spazi di democrazia, così che il suo rimase un tentativo,  come racconta Silvia Mori nel romanzo storico dedicato alla bisnonna, La dama del quintetto, Luciana Tufani, 2011. “I punti principali della proposta erano due: la possibilità della donna di denunziare alla nascita di un figlio naturale il nome del padre e quella del figlio, entro 5 anni dal raggiungimento della maggiore età, di avviare un’azione diretta alla dichiarazione di paternità. All’uomo spettava il diritto di impugnare l’attribuzione ricevuta. Al giudice andava il compito di valutare la questione. La donna trovata in malafede, colpevole di diffamazione, era punibile in termini di legge”(pag.219) . E’ significativo che alla legge Lollini si contrapponesse la legge del cattolico Meda che si fermava di fronte alla possibilità di fare ricerche da parte del figlio adulterino, e questo in nome della morale borghese, della tutela dei beni e del patrimonio familiare. I coniugi Lollini-Agnini avevano ricevuto centinaia di lettere da parte di donne e uomini che cercavano il proprio padre, provenienti soprattutto dalla Sicilia, e di genitori di ambo i sessi  che avrebbero voluto riconoscere i figi nati da relazioni illegali.

D’altra parte ancora non pienamente indagata è la storia della infanzia abbandonata in Italia. Di sicuro era molto forte la pressione a abbandonare, nascondere, fare sparire i figli nati fuori dal matrimonio di cui era intollerabile per la chiesa, per le autorità civili, per la mentalità comune, la cura all’interno di una famiglia, in un’epoca, quella fra ‘800 e ‘900, che pretende di controllare i corpi, le relazioni fra i sessi, la materia sessuale, fuori e dentro la famiglia, come ci hanno insegnato gli studi di M. Foucault. Tuttavia alcuni studi come quello di David Kertzer, Sacrificed for Honor. Italian Infat Abandonment and the Politics of reproductiv Control, (Beacon Press, Boston, 1993) parlano di una lunga durata storica in Italia, che risale all’epoca romana e continua nel Medioevo, di abbandono dei nenonati per motivi soprattutto economici, fino ad arrivare alla metà del XIX secolo quando il 40% dei neonati venivano abbandonati dentro e fuori dagli istituti e come abbiamo detto non solo per la mancanza di soldi. Il figlio della colpa non poteva per il rispetto della società civile, per la pubblica moralità, per salvare l’onore, essere tenuto presso di sè. Helen Sheehy (H.S., Eleonora Duse. La donna, le passioni, la leggenda, Mondadori, 2005) racconta che  Eleonora Duse ebbe un figlio, nel giugno del 1880,  dal giornalista napoletano Martino Cafiero che si guardò bene dal riconoscerlo e proteggere, con il matrimonio, la giovane donna che si era innamorata di lui, anzi non le mandò neanche un soldo e le rispedì la fotografia con il bambino in braccio che lei gli aveva inviato, aggiungendovi la scritta “commediante”, in questo modo, “le faceva presente di non considerarla altro che una donna di facili costumi” (pag. 35). Il bambino nato a Marina di Pisa, per i motivi di cui sopra, era figlio di nessuno, fu lasciato a balia in campagna, dove il piccolo morì, non si sa se dopo pochi giorni o dopo mesi, lasciando nella madre un ricordo angoscioso, il senso di colpa, e la fine della sua giovinezza, aveva allora 21 anni.”Alla Duse occorsero mesi per riprendersi dal’abbandono di Cafiero e dalla nascita e morte del figlio. Per il resto della vita ne soffrì le coseguenze sul piano psicologico ed emotivo.” (pag. 37)

E’ un excursus quello che vi ho proposto sul quale non è facile fare considerazioni definite, forse oggi di fronte a questo dispiegamento di misoginia, di diffidenza verso le donne, di  ignoranza della vita reale del genere femminile ma anche di quello maschile, diseducato a tutto ciò che potesse minimamente scalfire atavici pregiudizi, l’atteggiamento che più ci corrisponde è quello dell’inglese Jesse White Mario, una sorta di stupore incredulo. Ma questa è storia vera e ci obbliga a chiederci quali ombre oscure siano rimaste nel presente, a garantire la tenace convinzione dei rappresentanti del genere maschile di essere in qualche modo coinvolti da altro che non è la perduranza della specie, la sua cura, la sua presa di responsabilità. Qui sta un punto su cui sarebbe buono interrogarsi di più. E allo stesso tempo farsi forza con il sapere di queste femministe, escluse dalla scena politica istituzionale eppure capaci di accusare lo stato e di interagire politicamente rivolte alle altre donne ma anche ai maschi in carne e ossa, con uno spirito combattivo che andava molto oltre l’idea di parità, non ancora ratificata.

 

Bibliografia:

 

AA.VV. Si consegna questo figlio”. L’assistenza all’infanzia e alla maternità dalla Ca’ Granda alla Provincia di Milano (1456-1920), Università degli Studi di Milano a cura di Maria Canella, Luisa Dodi, Flores Reggiani, Skira, Milano, 2008

Virgilio Brocchi, Luce di grandi anime. Ricordanze, Milano, 1961 

Annarita Buttafuoco, Le mariuccine storia di un’istituzione laica: l’Asilo Mariuccia, FrancoAngeli, Milano 1985, 1988

Rossella Certini, Jessie White Mario una giornalista educatrice, Le lettere, Firenze, 1998
Foucault Michel, La volontà di sapere, L’uso dei piaceri, La cura di sè, Storia della sessualità v.1,2,3, Feltrinelli, Milano, 1984

David Kertzer, Sacrificed for Honor. Italian Infant Abandonment and the Politics of Reproductive Control, Beacon Press, Boston, 1993

Montesi Barbara, Questo figlio a chi lo do? Minori, famiglia, istituzioni (1865-1914), FrancoAngeli, Milano, 2007

Silvia Mori, La dama del quintetto, Luciana Tufani Editrice, Ferrara, 2011

Anna Maria Mozzoni, La donna in faccia al progetto del nuovo codice italiano, Tipografia sociale, Contrada dell’Olmetto, n.14 rosso, Milano, 1865
Franca Pieroni Bortolotti, Alle origini del movimento femminile in Italia, 1848-1892, Einaudi, 1963, 1975

Alessandrina Ravizza, I miei ladruncoli ed altre pagine di vita vera, Editrice Libraria, Milano, 1906

Emma Scaramuzza, La santa e la spudorata Alessandrina Ravizza e Sibilla Aleramo. Amicizia, politica e scrittura, Liguori, Napoli, 2004

Emma Schiavon, Torino 1911 Il primo Congresso pro suffragio femminile a cinquanta anni dall’Unità, Biblink, Roma, 2012

Helen Sheehy, Eleonora Duse. La donna, le passioni, la leggenda, Mondadori, 2005

Unione Femminile nazionale, Atti del 1° Congresso Nazionale di attività pratica femminile, Milano, 24-28,5, Società Editrice di Cultura Popolare, Milano, 1908
Fiorenza Taricone, Beatrice Pisa, Operaie, borghesi, contadine nel XIX secolo, Carucci, Roma, 1985
Jesse White Mario, Le opere pie e l’infanticidio legale, R.Stabil. Tipo-litografico Ditta A.Minelli, Rovigo, 1897